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Il rischio è quello di cedere tout court al fascino della rappresentazione. E lasciarsi così irretire dal filo di un racocnto a mezza strada fra realtà e favola, complici la sapienza del colore, la disarmante ingenuità del dipinto e la sicura grazia compositiva.

Sicchè l’intrigo, spontaneo e immediato, finisce per non andare oltre una lettura emotiva e sensibilistica dell’opera. E invece la ricerca di Mario Ortolani vive di un “progetto”, che vede protagonisti l’uomo e la natura, il lavoro e le stagioni, la vita di ogni giorno e i sogni. Il tutto sul piano di una costante ambiguità – che rimane tra le virtù primarie di un’opera d’arte – dove all’incertezza dei confini fra le varie tematiche si affiancano frequenti incursioni dall’uno all’altro fronte.

Contrariamente ad ogni ingannevole apparenza, quella di Ortolani è una pittura di idee. Dietro la quale si agita e fermenta una folla di pensieri, letture, esperienze, viaggi. E ancora: gli studi di Agraria, la scenografia, la grafica, la scienza, l’anarchia. Un magma incontrollabile, dove lo spirito di avvio (l’idea) perde ogni matrice razionale per farsi immagine, poesia.

Percorrere a ritroso questo processo, individuare le linee di forza di questo transfert, è forse la via più corretta per un approccio non periferico alla sua opera. La quale vive a ponte di due mondi (perchè questo è l’esito cui approdano i dipinti di Ortolani), anche se muove, sempre e soltanto, dal dato reale, da quel positum, che cade quotidianamente sotto i nostri occhi, per poi superarlo attraverso il sogno, l’immaginazione, l’ironia.

Viene a porsi così un rapporto di stretta connessione e dei costante interdipendenza fra mondo concreto e fantasia, che trova la sua consacrazione (ed esaltazione) in quel particolare linguaggio che Mario Ortolani ha maturato negli anni, e che costituisce la cifra distintiva della sua pittura.

 

Massimiliano Marianelli:

Troppo facile definire “ingenua” la produzione di Ortolani e superficiale considerare i suoi paesaggi espressione di un generico naïf. Poco è lasciato al caso nel mondo fantastico che abitano i personaggi dell’artista; essi stessi sono al tempo stesso prodotti e strumento di produzione artistica. Sono il risultato dello sguardo attento di un pittore che, dichiaratamente e spensieratamente ama “ri-leggere” la pittura fiamminga del XVI secolo e che nutre profonda ammirazione per Pieter Bruegel e per Hieronymus Bosch. Proprio nella produzione dei fiamminghi e in particolare di Bruegel*, sembrano trovare la propria origine le stesse fattezze del personaggio di Ortolani: l’“omino” dal cappello e senza volto. Non è certamente lo stesso mondo dipinto da Bosch quello di Ortolani; nessuna attesa di redenzione sembra preoccupare i suoi personaggi. Essi, piuttosto, invadono il quadro e diventano spensierati protagonisti di azioni che non escono dall’hic et nunc: niente passato né futuro. Il presente sembra invadere tutto: accoglie il passato e nasconde il futuro. Dimensioni temporali che però, come per incanto, ciascuno spettatore saprà ri-attivare entrando nel mondo degli omini. Dell’aldilà nulla è detto e delle speranze, tutto da immaginare dietro quei volti velati da un cappello, che lasciano presagire gioie e dolori. Matite perfettamente riprodotte, così come umili penne o torchi, prendono vita per il loro intervento. Non c’è un mondo da redimere, ma oggetti da valorizzare e trasformare con il lavoro che, Ortolani, lascia fare ai suoi omini, interpreti e attori di un mondo fantastico dove equilibrio, forme e colori, sono l’unica regola. Ancora loro, gli omini di Ortolani, quasi matite del loro creatore, realizzano il loro sogno: vivere la semplicità del quotidiano.

* Lo stesso Mario Ortolani ama riferirsi ad un quadro di Bruegel e precisamente al Matrimonio dei contadini dove, in basso a sinistra, possiamo vedere un bambino con il cappello in testa quasi a coprirne completamente il volto.


Marco Bastianelli:

Sono praticamente cresciuto con gli “omini” di Mario Ortolani. Da bambino li osservavo intenti nelle loro occupazioni, mentre compiono gesti da fanciulli dentro paesaggi solari o calpestando soffici nevi. È distensivo fantasticare su queste piccole figure senza volto che cavalcano lumache giganti per viaggi di un’improbabile lentezza o suonano trombe dorate come spighe di grano. Pare di sentirli gli odori delle cantine profumate di salumi e vino e mi chiedo come possano coltivare angurie tanto grandi da dormirci dentro. Ma non è al bambino che Ortolani si rivolge, perché la fantasia non basta per comprendere la profondità dei suoi racconti. Si resta colpiti, certo, dai colori, dai paesaggi e dalle mille stranezze, ma questi quadri non sono mai come sembrano: gli “omini” sono tutti senza volto, forse per sottolineare che il loro è un destino comune; vivono in case scure, quasi fossero non-luoghi o buchi neri che paiono ingoiare il colore intorno e, con esso, quell’ottimismo del primo impatto. Negli attacchi dei topi o di altre terribili bestie si cela la minaccia di una vita difficile, di un gioco di carte dall’esito incerto. Le storie di quei piccoli omini alle prese con un mondo gigante, insomma, sono le nostre stesse storie, rilette dall’artista per dirci che le occupazioni quotidiane divengono a volte immani fatiche, di cui solo a sprazzi si comprende il senso. Ortolani ci vuole dunque suggerire che l’ottimismo e l’ingenuità del bambino vanno riguadagnate. È ad esempio nelle piogge miracolose o nelle scalate verso il cielo che si intravede la presenza di una dimensione più alta, di un prolungamento di quelle vicende oltre il senso immediato. E ci sono dappertutto simboli, rimandi e allusioni, segni di un intreccio che gli occhi non bastano a vedere. Ora che sono adulto, perciò, la fantasia del bambino contempla quei quadri come specchio della condizione umana, alla luce delle domande e degli interrogativi che anche noi, piccoli “omini” d’oggi, non possiamo non porci.